Con
periodicità cronometrica ritorna il problema delle foibe e dei profughi
istriani che fascisti e neofascisti hanno sempre impunemente agitato per fini
demagogici nascondendo agli italiani la verità storica. Questa volta è il turno
del neofascista Fini che a nome del governo italiano prende l’impegno solenne
di ricordare quei profughi e insieme i caduti delle foibe, istituendo una
giornata ufficiale di rimembranza (il 10 febbraio) in modo che questa tragedia,
a suo dire, non si ripeta mai più. Così Fini, ignorando volutamente più di
venti anni di orrori e massacri perpetrati dai fascisti e dai nazisti verso
quelle popolazioni, si presenta lindo e pinto agli italiani di oggi e alle
nuove generazioni che di quegli avvenimenti non hanno mai sentito parlare. Ma
vediamo come sono andate le cose. Con la fine della prima guerra mondiale
l’Italia ottenne con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, tutta
l’Istria fino a Monte Nevoso, Zara e l’isola di Lagosta; mentre Fiume fu
dichiarata città libera sia dall’Italia che dalla Jugoslavia. Ancor prima della
firma del Trattato di Rapallo, la popolazione dell’Istria, composta per circa
il 65% da croati e sloveni in prevalenza contadini e operai, si trovò di fronte
allo squadrismo italiano in camicia nera, parzialmente importato da Triste dove
si manifestò con particolare aggressività e ferocia.
Gli episodi
del 13 luglio 1920 durante i quali gruppi di nazionalisti e fascisti, sostenuti
e finanziati da armatori triestini, devastarono la tipografia del giornale
“Edinost”, gli studi di numerosi professionisti sloveni le sedi della Banca
Adriatica, della Banca di Credito di Lubiana, della Cooperativa per il
Commercio e l’Industria e della Cassa di Risparmio Croata, segnarono l’inizio
di una dura e violenta politica di oppressione e pulizia etnica che
perseguì ininterrottamente per tutto il ventennio nei confronti delle
popolazioni slave, slovene e croate. Fu l’inizio di un’opera di
snazionalizzazione violenta e capillare di italianizzazione e di fascistizzazione
della Venezia Giulia. Erano questi gli anni in cui lo “squadrismo nero” in
Italia dilagava in tutta la sua efferatezza, appoggiato dalle forze di polizia
e dalle Guardie Regie.
Nel solo
primo semestre del 1921 furono operate, in Italia, dalle squadre fasciste più
di 800 distruzioni: 119 Camere del Lavoro, 17 giornali e tipografie, 59 Case
del Popolo, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 8 società di mutuo soccorso,
141 sezioni socialiste, 100 circoli di cultura, 10 biblioteche, 28 sindacati operai,
ecc. Nella Venezia Giulia le aggressioni e gli assalti da parte di squadre
fasciste contro sedi operaie e slave si moltiplicarono: dopo l’incendio del
“Balkan”, venne devastato ed incendiato il “Norodni Dom” di Pola, vennero date
alle fiamme le case dei villaggi di Krnica e di Mackolje. Nel complesso 134
furono gli edifici della Venezia Giulia distrutti fra il 1919 ed il 1920.
Mussolini scriverà sul “Popolo d’Italia” del 24 settembre 1920: “in altre
plaghe d’Italia i Fasci di combattimento sono appena una promessa, nella
Venezia Giulia sono l’elemento preponderante e dominante della situazione
politica”. (Foibe e Deportazioni: Quaderni della Resistenza n 10 a cura del
Comitato Regionale dell’Anpi del Friuli-Venezia Giulia). Dopo la presa del
potere politico da parte di Mussolini i misfatti nell’Istria si intensificarono
fini ad assumere la forma di un preciso programma “legale” di
snazionalizzazione nei confronti dei circa 500.000 sloveni e croati che il
suddetto Trattato aveva destinato a vivere dentro i confini dello Stato
italiano.
Furono
aboliti o distrutti tutti gli enti o sodalizi culturali, sociali e sportivi
della popolazione slovena e croata, sparì ogni segno esteriore della presenza
dei croati e sloveni, vennero abolite le loro scuole di ogni grado, cessarono
di uscire i loro giornali, i libri scritti nelle loro lingue furono considerati
materiale sovversivo, con decreto del 1927 furono forzosamente italianizzati i
cognomi di famiglia, migliaia di persone finirono al confino ( Tremiti, Ustica,
Ponza, Ventotene, S. Stefano, Portolongone, Lipari, Favignana, ecc.), la lingua
croata e slovena fu proibita nei tribunali e negli uffici e perfino sulle
lapidi sepolcrali.
Centinaia e
centinaia di democratici italiani, di operai, di socialisti, di comunisti e
cattolici che lottarono per la difesa dei più elementari diritti delle
popolazioni croate e slovene, subirono attentati, arresti, processi e lunghi
anni di carcere inflitti dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato.
Molti di loro scomparivano nel giro di una notte, probabilmente infoibati.
Circa 60.000 slavi fuggirono dall’Istria la cui metà trovò rifugio nelle due
Americhe. Nel tentativo di cancellare ogni identità culturale e linguistica di
quelle popolazioni considerate senza storia e di razza inferiore, il fascismo
ormai al potere iniziò l’opera di snazionalizzazione colpendo i quadri
dirigenti e costringendo all’emigrazione funzionari pubblici, sacerdoti,
maestri, intellettuali per eliminare ogni espressione di vita politica e
culturale. “I maestri slavi, i preti, i circoli di cultura slavi, ecc. sono
tali anacronismi e controsensi in una regione annessa da ben nove anni e dove
non esiste una classe intellettuale slava, da indurre a porre un freno
immediato alla nostra longanimità e tolleranza” (da “Il Popolo di Trieste”
del 27 giugno 1927).
Portata a
termine la distruzione di ogni vestigia della cultura e delle tradizioni slave,
il fascismo si accinse ad attaccare il movimento cooperativo dei contadini.
Iniziò così il programma della loro espulsione dalle campagne avvenuta
mediante l’indebitamento degli stessi contadini verso alcuni Istituti
finanziari italiani e in particolare con l’Istituto per il Risorgimento delle
Tre Venezie. Tra il ’28 e il ’29 vennero sciolte le leghe delle cooperative di
Gorizia, costituite da 170 cooperative di cui 70 di credito e quella di
Trieste, costituita da 140 cooperative, di cui 86 di credito. Si moltiplicarono
i pignoramenti e infine tutte le terre messe all’asta furono in parte rilevate
dall’Ente per la Rinascita delle Tre Venezie, costituito “ad hoc” il 14 agosto
1931. In pochi anni tutti i contadini proprietari di appezzamenti di terra
furono espropriati: una metà di tali appezzamenti a favore dell’Ente e l’altra
metà a favore di tre agrari italiani (L. CERMELJ:L’Istria fra le due guerre.
Contributi per una storia sociale, IRSML, Ediesse, Roma 1985). Infine un
decreto del governo italiano (n. 82 del 07-01-1937) autorizzò l’Ente delle Tre
Venezie ad espropriare qualsiasi proprietà agricola. Ma ormai la seconda guerra
mondiale batteva alle porte, così che il programma di bonifica etnica rurale
rimase incompiuto.
Il 10 giugno
1940 l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania. Il 28 ottobre 1940
l’attacco fascista alla Grecia si risolse in una completa sconfitta. Il 6
aprile del ’41, 56 divisioni tedesche, italiane, ungheresi e bulgare,
attaccarono da ogni parte il Regno di Jugoslavia che crollò nel giro di venti
giorni. La Jugoslavia venne smembrata: la Slovenia settentrionale, più
industrializzata, fu presa dalla Germania, quella meridionale, agricola, venne
annessa all’Italia. La città di Lubiana fu dichiarata una provincia
italiana. Furono annesse all’Italia anche le province di Fiume, Zara e la parte
centrale della Dalmazia con numerose isole adriatiche. Zara, Spalato e Cattaro
costituirono il Governatorato della Dalmazia. La Croazia fu dichiarato stato
indipendente e Aimone di Savoia ne fu proclamato re, mentre il governo fu
affidato al boia fascista croato Ante Pavelic – rientrato in Jugoslavia al seguito
delle truppe naziste – e agli ustascia che diedero subito sfogo ad ogni sorta
di “pulizia etnica”. Il Montenegro divenne un Governatorato civile italiano,
trasformato ben presto in Governatorato militare. Buona parte del Kossovo e
della Macedonia fu invece annessa alla Grande Albania, già aggredita ed annessa
all’Italia nell’aprile del ’39.
Alla
spartizione militare della Jugoslavia, seguì subito quella economica e
finanziaria. Il bottino maggiore toccò, naturalmente, ai tedeschi i quali si
accaparrarono le migliori fonti di materie prime ed energetiche, le più grandi
banche e tutte quelle zone che ritennero economicamente più importanti, secondo
una proporzione che rispecchiava il grado di vassallaggio di Mussolini ad
Hitler. Come era nell’aria già da parecchio tempo, nell’estate del ’41, in
Croazia, esplosero nei modi più barbari e sanguinari, i massacri più efferati
condotti dagli ustascia contro la popolazione serba, gli ortodossi, gli ebrei,
i comunisti e gli avversari politici di tutti i tipi. Un campo di
concentramento fu attrezzato a Jasenovac per la loro eliminazione fisica. Ebbe
così inizio una crociata cattolica che nulla aveva da invidiare ai peggiori
massacri del Medioevo. Duecentonovantanove chiese serboortodosse della “Croazia
Indipendente” furono saccheggiate, annientate e molte furono trasformate in
magazzini e stalle. Duecentoquarantamila serbi ortodossi furono costretti a
convertirsi al cattolicesimo e circa 750.000 furono assassinati, fucilati a
mucchi, colpiti con scure, gettati nei fiumi, nelle foibe e nel mare. Venivano
massacrati nelle cosiddette “Case del Signore”, ad esempio duemila persone solo
nella chiesa di Glina. Da vivi venivano loro strappati gli occhi, tagliate le
orecchie e il naso, venivano sgozzati, decapitati o crocifissi. In un rapporto
su “La situazione politica in Dalmazia”, a proposito delle stragi compiute da
questi “barbari del novecento” in Bosnia, nella Dalmazia rimasta sotto Ante
Pavelic, si parla di “intere popolazioni trucidate” e di “centinaia di bambini
sgozzati in serie”. Anche le camicie nere, per ordine di Mussolini, si
distinsero per la loro ferocia perpetrando ogni sorta di violenza. Decine di
migliaia di civili furono deportati nei campi di concentramento disseminati
dall’Albania all’Italia, dall’isola adriatica di Arbe fino a Gonars e Visco nel
Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. In quei lager italiani morirono
11.606 sloveni e croati. Nel solo lager di Arbe ne morirono 4.000 circa, fra
cui moltissimi vecchi e bambini per denutrizione, stenti, maltrattamenti e
malattie.
In un
documento del 15 dicembre 1942 l’Alto Commissariato per la Provincia di
Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell’XI Corpo d’Armata il
rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati
“presentavano nell’assoluta totalità i segni più gravi dell’inanizione da
fame”. Sotto quel rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio
pugno: “Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo
d’ingrassamento. Individuo malato= individuo che sta tranquillo”. Nel marzo del
’42 il generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia
(Supersloda), diramò una circolare 3/C (un libretto di circa 200 pagine
compilato dal comando Supersloda contenente, tra l’altro, il “trattamento da
usare alle popolazioni e ai partigiani nel corso delle operazioni”) nella quale
si legge: “Il da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula
dente per dente ma bensì da quella testa per dente”. Queste parole certamente
furono tenute presenti e durante l’eccidio di Gramozna in Slovenia e quando
alcune migliaia di civili “ribelli” furono falciati dai plotoni di esecuzione
italiani, senza processo, ma solo in seguito a semplici ordini di generali
dell’esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti.
In 29 mesi
di occupazione italiana nella sola “provincia” di Lubiana vennero fucilati o
come ostaggi o durante le operazioni di rastrellamento, circa 5.000 civili, ai
quali vanno aggiunti i circa 200 bruciati o massacrati in modi diversi.
Novecento, invece, i partigiani catturati e fucilati. A questi si devono
aggiungere altre 7.000 persone, in gran parte anziani, donne e bambini, morti
nei campi di concentramento. Complessivamente oltre 13.000 persone, su 340.000
abitanti, il 2,6% della popolazione (opera citata: Quaderni della Resistenza n 10).
Nella zona
nord-orientale dell’Istria, alle spalle di Abbazia, le autorità militari
italiane intrapresero, all’inizio del giugno ’42, un’azione terroristica contro
le famiglie dalle quali risultava assente qualche congiunto relativamente
idoneo alle armi, sicchè era probabile ritenere che tale congiunto avesse
raggiunto le file dei partigiani.
A seguito di
ciò un comunicato del generale Lorenzo Bravarone informò che erano state
arrestate e deportate nei lager italiani 34 famiglie per un totale di 131
persone. I loro beni mobili furono confiscati e le loro case incendiate.
Dodici di loro vennero passati per le armi senza alcun processo. Il 13 luglio
del ’42 il prefetto di Fiume, Temistocle Testa, ordinò una feroce rappresaglia
come vendetta per l’uccisione di due maestri elementari fascisti mandati dal
regime a Podhum per “italianizzare” i bambini croati. Reparti di camicie nere,
insieme a reparti delle truppe regolari, appoggiati da numerosi giovani
fascisti di Fiume, all’alba del 13 luglio entrarono nel villaggio di Podhum,
rastrellarono l’intera popolazione che fu condotta in una cava di pietre presso
il campo di aviazione di Grobnico, mentre il villaggio veniva saccheggiato e
incendiato.
Centinaia e
centinaia di case furono distrutte, tutto il bestiame fu portato via e 889
persone di cui 412 bambini, 269 donne e 208 anziani finirono nei campi di
concentramento italiani. Altri 91 uomini furono fucilati nella cava. Questo fu
il vero volto del capitalismo italiano, monarchico e fascista, in Istria e nei
territori jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale. Tra la
caduta del regime fascista, 25 luglio del ’43, e l’8 settembre del ’43, i
poteri passarono dai gerarchi fascisti alle autorità militari le quali
continuarono ad usare gli stessi strumenti di repressione usati dai fascisti,
impiegando le truppe dislocate in Istria per la lotta contro i “ribelli” della
Venezia Giulia. Con il crollo del regime fascista divampò la lotta di Resistenza
– già da anni preparata – slovena e croata in Istria e nel Goriziano. Fin dal
tardo pomeriggio dell’8 settembre nella penisola ci fu una generale rivolta
popolare che coinvolse in egual misura le popolazioni italiane nei centri
costieri e quelle croate e slovene nell’interno. Le strutture militari dello
Stato non opposero nessuna resistenza ( ad eccezione di Pola dove contro gli
insorti e i partigiani fu aperto il fuoco per ordine del Comando di guarnigione
e si ebbero tre morti fra i civili ), sicchè nel giro di pochi giorni le armi
dell’esercito e dei carabinieri passarono agli insorti. Nel clima esaltante
della libertà riconquistata, accompagnato da manifestazioni di rivalsa sociale,
prese corpo la volontà di una vera resa dei conti con gli italiani fascisti.
Già il 13 settembre cominciarono gli arresti dei gerarchi fascisti, dei podestà
e di altri funzionari per ordine dei numerosi CPL. I primi massicci arresti
avvennero nelle zone di Rovigno e di Albona. Tra gli errestati, che nella
stragrande maggioranza era composta da gerarchi fascisti, spie e
collaborazionisti, capitarono anche impiegati comunali, notabili, commercianti
ritenuti sfruttatori e fascisti che non avevano grandi colpe da espiare.Ma se
l’equazione, diffusa in molte località dell’Istria, italiani=fascisti non fu
giusta politicamente poiché accomunava il popolo italiano con il governo
fascista, essa non fu certamente dettata dal CLN di Trieste che era il
principale organo politico della Resistenza italiana nella Venezia Giulia. Il
Comitato popolare di liberazione, nel settembre del ’43, anzi raccomandò che la
punizione dei criminali fascisti avvenisse con regolari processi, impedendo
nella maniera più energica procedimenti arbitrari e vendette.
Questi sono
dunque gli avvenimenti più importanti che precedettero il 25 luglio e l’8
settembre del ’43 e sui quali regna il silenzio più assoluto. Essi ci
dimostrano che ancor prima dell’8 settembre nelle foibe finirono, per
opera dei fascisti di Mussolini, dei nazisti di Hitler e del fascista croato
(sostenuto dalle gerarchie Vaticane e benedetto da Pio XII) Ante Pavelic,
comunisti, socialisti, antifascisti e democratici, e, tra il 13 e il 25
settembre del ’43 e dopo l’aprile del ’45, ci finirono, giustamente, non solo
gli sfruttatori e gli assassini fascisti italiani, ma anche i traditori del
popolo croato e sloveno, i fascisti ustascia e i degenerati cetnici. Le foibe
non furono che l’espressione dell’odio popolare compresso in decenni di
oppressione e sfruttamento che esplose con la caratteristica insurrezione
popolare rivoluzionaria.
Piero De Sanctis (tratto dal numero 8
della rivista Gramsci, del maggio 2003)
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